Blow Up, chiede e pubblica qualche nota.

La televisione come soggetto di narrazione.  Il racconto come programma politico.

 

[Ho rimandato sino all’ultimo momento l’inizio di questa battitura.
Penso da tempo, per ciò che mi compete, che la scrittura audiovisiva sia uno dei pochissimi esercizi creativamente liberi che padroneggio, ad ogni modo inizio questa battaglia con le lettere, tentando di tenere fede al titolo].

Caro Donatello*,
scrivo da una mansarda di Catania ricavata in un complesso industriale di fine ‘800, in uno dei quartieri più popolari e contradditori di questa città che non è la mia. La stanza è piena di una luce diurna morbida e per parlare di televisione non posso far altro che accenderla. Seduto su un divano rosso, sono sicuro che questa mia posizione sia comune nello stesso istante a migliaia di persone, mi sento accomunato, e tanto basta per dare spessore intellettuale al pomeriggio.

Lo scenario è ampio, sui trecento canali. Il telecomando asseconda una prima ricognizione. Il panorama è quello quotidiano: mentre qualche decina di canali impartisce lezioni di cucina per ingrassare, altrettanti vendono attrezzi per dimagrire, un numero non esiguo mostra donne in costume fatte di crack accarezzare materassi senza lenzuola, qualcuno vende padelle di pietra, i giovanotti della televisione francese tornano nelle colonie africane con un fare documentaristico tanto spigliato e moderno da meritare la ghigliottina; l’invasione del quotidiano americano ci suggerisce, fuori contesto, come comprare una casa, scegliere l’abito da sposa, perdere 180 chili, demolire a mazzate un appartamento, sopravvivere in Amazzonia, trovare l’hamburger cinque strati cinque chili, fare dollari da robivecchi per poi perderli a poker tra i set dei grandi tornei; la Rai, signorona decadente, sfoggia l’asso dell’intrattenimento culturale certificato e sul numero 5 del suo bouquet David Letterman, in differita intercontinentale, alla seconda replica della giornata, intervista l’attore del prossimo film che tutti dovranno andare a vedere. Intanto, sulle ammiraglie nazionali, dal grado 1 al grado 7 della realtà ufficiale italiana, a fare più impressione sono giornalisti improvvisamente ringalluzziti che con alterigia bullesca torchiano i nuovi scout del parlamento, pronti, pranzo a sacco in spalla, alla loro prima gita di squadriglia, mentre, secondo tradizione, su Canale 5, un drappello di uomini e donne sopravvissuti alla seconda guerra mondiale gioca all’adolescenza sentimentale sotto la guida della più influente antropologa sperimentale italiana il cui studio resta impermeabile all’avanzare di una ritualità scura e nuova come quella del suicidio familiare che l’all news di certo non si è fatto sfuggire. Dalle parti di Padre Pio Tv, infine, due suore in ginocchio, riprese dall’alto, in una chiesetta angosciante, aggiungono, bontà loro, la spiritualità che possono.
Trentasette/quaranta minuti di croccante bontà (agra) televisiva sul cui gusto è difficile disquisire con amici o colleghi, specie se cineasti, sempre impegnati nella difesa partitica del disgusto televisivo. Posizione maggioritaria, spesso dogmatica, priva di spiragli, sul cui credo si è consolidata nel tempo una rinuncia totale alla rivendicazione di spazi televisivi (siano essi nazionali, regionali o locali) mai come in questo momento miope e ottusa, considerando che il passaggio al digitale terrestre ha di fatto quadruplicato i canali esistenti determinando l’apertura di infiniti spazi vuoti all’interno dei quali potrebbe insinuarsi un tentativo di diffusione sperimentale serio, culturale, di massa, capillare. Lo switch off al digitale ha mostrato la totale incapacità della televisione italiana (pubblica e privata) di autoprodurre o “rintracciare” contenuto, svelandosi, probabilmente, tra format e serie, come il maggiore importatore della grande distribuzione italiana. Basta dare un’occhiata al palinsesto settimanale di Rai 4 dove su 115 programmi in scaletta, 94 hanno titoli di questo genere: 30 Rock, 90210, After.Life, Alphas, Anime Morning, Anime Thursday, Ashes to Ashes, Babylon 5, Battlestar Galactica, Being Erica, Bloody Sunday, Bonekickers, Breaking Bad, Breaking Dawn, Cash Truck, Catch 44, City of God, Crank, Cyborg, Daleksi, Danika, Deep Impact, Desperate Housewives, Dexter, Diamonds, Eureka, Flashpoint, Go Fast, Gotti, Haven, Heartland, Hellraise, Ironclad, Jumper, Juncture, Kill the Irishman, La planque, Lip Service, Lost, Lovely Molly, Mad Men, Mainstream, Medium, Monsters, Mutant Chronicles, Necromancer, Nightmare, Nomads, North Face, Nuit Blanche, Once Upon a Time, One Tree Hill, Overheard 1 e 2, Paris Express, Passengers, Perfect Score, Pretty Persuasion, Private Practice, Ringer, Rogue, Sanctuary, Sex List, Spawn, Splice, Star Trek, The Code, The Italian Job, The Lost Future, The Lost World, The Manchurian Candidate, The Man From Nowhere, The Skulls, The Viking Sagas, The Wire 1° 2° 3° 4° e 5° stagione, The Woman, Torchwood, Tough Luck, Turistas, Une nuit, Vanilla Sky, Vanishing on 7th Street, Veronica Mars, Warehouse 13, Weeds, Wonderland, Wrong Turn at Tahoe.
Neonati televisivi, ragazzini e liceali hanno poi dalla loro parte tre canali pubblici dedicati – Rai Yo-Yo, Rai Gulp e Rai Scuola – che potrebbero essere complessivamente uno o due canali studiando semplicemente le fasce orarie e liberando magari dello spazio per una RAI SPERIMENTALE, uno spazio autonomo, amorfo e a basso costo che non sia solo contenitore di una quantità enorme di ricerca matura (in buona parte già ampiamente disponibile), onesta, priva di narcisismi, mediologismi damsiani o essai accademici, ma soprattutto un progetto capace di avere in mente il “fare televisione”, assumendone la posizione anche e prevalentemente nel contesto esterno, fuori, là dove si produce la cronaca quotidiana attualmente intessuta sulla base di una nomenclatura di fatti eclatanti dal preteso interesse nazionale in cui il “presente continuo” della politica ha ridotto a un minimo scabroso la qualità e la poesia (dannazione!) della narrazione. Strappare a questo perpetuto ridondare significa presenziare l’evento con la pervasività e lo status dell’operatore televisivo a cui tutto è concesso per diritto di cronaca, facendo di questo vantaggio lo strumento per scrivere pagine e pagine di cronaca, di dramma satirico, già potenzialmente mito, per un pubblico alienato quanto si vuole ma che rimane sino a prova contraria frammento di popolo, comunità mancata, in attesa di un racconto che accomuni anche distanti da questo divano che per oggi si è fatto scomodo.
Mi pare sia questo il quadro alla base del lavoro che conduciamo ormai da qualche anno e che ci ha portato a interagire con la televisione, il cinema e l’arte in modi che, se vorremo, potremo approfondire con piacere.

Catania 5 Aprile 2013, Alessandro Gagliardo

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*Lettera a Donatello Fumarola per una rubrica da lui curata sulla rivista mensile BlowUp
e pubblicata sul numero di maggio 2013.

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