Intorno ai capannoni [21’1″]

Note:

Il fondamento della mia identità non è tanto nel patrimonio e bagaglio delle concatenazioni causali, biologiche genetiche ambientali che mi determinano, quanto lo spazio dell’incontro, il vuoto tra me e l’altro, in cui avveniamo, l’uno e l’altro, scaturiti nel libero gioco con cui quelle determinazioni risuonano e precipitano nell’incontro. Se c’è un salto, una discontinuità nella catena causale che ci determina, non si situa tra natura e cultura, che in questa prospettiva sono solo ordini di complessità differenti, ma in questo vuoto tra gli esserci in cui, come ex nihilo, siamo provocati all’esistenza, e nel come ciascuno assume questa exstasi che lo espone come volto.

 Benjamin riprende una parabola sul regno messianico dalla tradizione rabbinica: “fra gli chassidim si racconta una storia sul mondo a venire, che dice: là tutto sarà proprio come è qui. Dove ora dorme il nostro bambino, là dormirà anche nell’altro mondo. E quello che indossiamo in questo mondo, lo porteremo addosso anche là. Tutto sarà come è ora, solo un po’ diverso.”

Agamben, da cui ho tratto la citazione, (Agamben “La comunità a venire”) osserva che “la tesi per cui l’Assoluto è identico a questo mondo non è una novità” ; per esempio presso i logici indiani si enuncia: “fra il nirvana e il mondo non c’è la più piccola differenza”. Nuovo, e da spiegare, è invece il piccolo spostamento introdotto dal dire “tutto sarà come ora, solo un po’ diverso”.Il piccolo spostamento non riguarda lo stato delle cose, ma il suo senso e i suoi limiti. Esso non ha luogo nelle cose, ma alla periferia, nell’agio fra ogni cosa e se stessa.

Nel termine “agio” risuona una costellazione semantica che include l’idea spaziale di adiacenza, quella temporale di ad-agio, quella di comodità, per arrivare all’uso del termine nella poesia provenzale come luogo stesso dell’amore “o meglio, come amore in quanto esperienza dell’aver luogo di una singolarità qualunque”. E qui sta il punto: il “così com’è” (con tutte le sue determinazioni, né universale né particolare, né necessario né contingente, qualunque nel senso di quodlibet, qual-si-voglia, cioè non “non importa quale” ma “tale che comunque importa”) è pensabile, concepibile come pensiero, solo attraverso l’esperienza amorosa.

Solo riferendoci all’esperienza ed al discorso d’amore possiamo dare corpo di senso e significato a questa identità di singolarità e idea, immanenza e trascendenza, del quodlibet, dell’aver luogo così, tale e quale, esempio, in quanto tale sempre unico.

E anche, possiamo aggiungere noi, l’esperienza del bello.

Ma che dire del brutto e dell’odio? Anche qui si dà esperienza di un cogliere così-com’è, in quanto tale, il nostro oggetto.

Questo ci rimanda a quel lato infernale, inquietante, alienante implicata dalla identità interscambiabile di io e simile, che è anche dualità dei luoghi dell’io.

Della dualità strutturante l’io, di cui, da Freud a Lacan a Girard si è sempre sottolineata la dimensione straniante, conflittuale e alienante, pur nei differenti percorsi teorici, con le relative fenomenologie del doppio, dell’aggressività transitiva, della conflittualità mimetica.

Agamben, partendo da passi del Talmud che consentirebbero anche questa lettura, tuttavia non tematizza tutto questo e pone l’accento sul fatto che “il più proprio di ogni creatura” è “il suo essere comunque nel luogo dell’altro”, in una “sostituibilità incondizionata”.

Cosa gli consente questo spostamento dell’attenzione dalla dimensione dell’odio a quella dell’amore, entrambe implicate in questa originaria “sostituibilità”?

Il nostro tempo non può più pensarsi come campo di lotta tra bene e male, potenza di essere e potenza di non essere. Anzi, è proprio l’affermazione di un poter essere, che si costituisce come potere in opposizione al poter non essere, che cominciamo a vedere la radice del male in quanto potere fondato sulla potenza di non essere. Questa opposizione speculare, gravida di violenza, non è tutto.

(Il poter non essere non è semplicemente l’assolutamente negativo, il male. Non sarebbe concepibile atto propriamente umano, eludendolo. Sulla questione di come ci si debba mantenere desti al pensiero di una irriducibile tragicità di questa condizione, non ci soffermiamo ora)

La proposta di Agamben è quella di una individualità, o meglio, individuazione, che si fondi non sul potere di un poter essere, ma scaturisca dal “poter non non-essere” che è il lasciar essere una contingenza ed è “la nascita in Dio dell’amore”. Lo spostamento è dal far essere quel che deve al lasciar essere quel che, nella contingenza, se non negato, potrebbe avvenire.

Come nella dottrina tomistica l’aggiungersi dell’aureola qui si tratta di “un paradossale individuarsi per indeterminazione”.

“questo impercettibile tremito del finito, che ne indetermina i limiti e lo rende capace di confondersi, di farsi qualunque, è il piccolo spostamento che ogni cosa dovrà compiere nel mondo messianico. La sua beatitudine è quella di una potenza che viene solo dopo l’atto, di una materia che non resta sotto la forma, ma la circonda e l’aureola.”

Prosegue Agamben:

“..oggi (…) non ci sono più classi sociali, ma solo una piccola borghesia planetaria, in cui le vecchie classi si sono dissolte: (…) essa è la forma in cui l’umanità è sopravissuta al nichilismo”

differenze di lingua, dialetto, modi di vita, di carattere, di costume “e le stesse particolarità fisiche di ciascuno, che costituivano la verità e la menzogna dei popoli e delle generazioni che si sono succedute sulla terra, tutto ciò ha perduto (…) ogni significato ed ogni capacità di espressione e di comunicazione. Nella piccola borghesia le diversità che hanno segnato la tragicommedia della storia universale stanno esposte e raccolte in una fantasmagorica vacuità.

(…)

“…la piccola borghesia planetaria è verosimilmente la forma nella quale l’umanità sta andando incontro alla propria distruzione” ma anche “un’occasione inaudita nella storia dell’umanità”

“…se gli uomini, invece di cercare ancora una identità propria nella forma ormai impropria e insensata dell’individualità, riuscissero ad aderire a questa improprietà come tale, a fare del proprio esser-così non una identità e una proprietà individuale, ma una singolarità senza identità, una singolarità comune ed assolutamente esposta (…) non esser-così (…) ma essere soltanto il così, la loro esteriorità singolare e il loro volto, allora l’umanità accederebbe per la prima volta ad una comunità…”

(G. Agamben –La comunità che viene-)

In breve: “In più santi si è e più si ride” “J. Lacan

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