L’ anticristo corre su suole squarciate

Per intendere in che senso vanno i discorsi di Claudio si deve guardare a un pensiero che unifichi biografia e teoria, non per nessi causali sociologici, psicologici eccetera, ma (in un modo che più avanti cerchiamo di indicare) attribuendo nella teoria la centralità all’etico pratico, e alla sua verità una temporalità istantanea. Provo ad esprimere questa temporalità così: le verità che variamente si enunciano in un istante, in una data situazione, in quanto verità sono universali. Ma la fissazione di significati univoci di quei termini che appartengono ai linguaggi delle scienze esatte, e in generale dei saperi che si sedimentano in scritture, è solo un ambito molto ristretto di quel linguaggio quotidiano in cui sono immersi. In questo linguaggio il significato dei termini è in continuo divenire, dato che il linguaggio parlato qui ed ora è il metalinguaggio ultimo, il vertice della piramide di tutti i metalinguaggi che di nominazione in nominazione sussumono i precedenti e ne rimaneggiano tutte le connessioni di senso fino al significato di ciascun termine. In un certo senso: per ogni istante c’è la sua lingua, completa (ogni lingua è completa) e unica che si parla in quell’istante-situazione per la prima volta (e mai più). In quella lingua unica del metalinguaggio ultimo possiamo dire “ 2 più 2 = 4”, verità trasversale e traducibile in tutte le lingue – situazione. Altre, come “lo stato sono io”, richiedono ricostruzioni storiche della situazione per essere ancora parzialmente intese in altri, e, infine, all’estremo opposto rispetto al matema, ci sono quelle che sono intraducibili nelle lingue a venire, e sono espressione della concretezza unica della rete di senso di quell’istante situazione. Di queste ultime cosa ci fa dire che sarebbero delle verità, se, a rigore, l’istante successivo non siamo più in grado di nominarne il ricordo? Di cosa direbbero il vero? Chi o cosa le verifica, le invera? La risposta è che dicono sempre la stessa cosa, rinnovano, nella lingua ultima e unica della situazione, il nesso tra singolare e universale, (non in generale, ma) tra quella stessa singolarità concreta della loro enunciazione e il tutto dell’universale. La qualità della loro evidenza è quella della pronuncia del nome, dell’atto che enuncia, come il “dum dicit” di Anselmo, il “cogito” di Cartesio, eccetera.

Questo implica che ogni situazione, istante, deve rinominare nella propria lingua, nel suo metalinguaggio ultimo, qualcosa che, essendo lo stesso, ha tanti nomi quante le situazioni di enunciazione di tutti i parlanti in ogni tempo. Questo qualcosa il cui nome va ogni volta riformulato perché non c’è ancora, non esiste altrimenti che come potenziale che esige di dirsi nell’idioletto della situazione, perché la situazione rinnovi nel senso vivente dei suoi termini attuali il patto che la lega all’universalità del linguaggio e all’alterità della sua circolazione e divenire. Cioè l’idiotismo dell’io – noi – ora, parlando si consegna con la sua parola alle vicissitudini incalcolabili del linguaggio in alterità e divenire in cui si impegna. Un nome, un giuramento, la cui verità non è altrove dalla sua pronuncia efficace, funzione fàtica di riconferma della fede nel linguaggio. Se è così, questa enunciazione si sporge ed espone al silenzio esterno al linguaggio, assenza di relazioni che la riarticolino, che la rende in questo senso assoluta (come il matema all’estremo opposto, se consideriamo il “per tutti…” della validità del matema una totalità (tutti gli universi), altrettanto una, unica, della singolarità della lingua-ora della situazione).

Ecco, in questo video con questi termini, e in generale in tutti gli altri, riformulando lo stesso nome – giuramento con innumerevoli filosofemi, è a questa verità dell’istante, che il lavoro di Claudio punta, appiattendo la teoria sulla quotidianità delle situazioni biografiche concrete, con intenzione pratica prima che conoscitiva.

La biografia di Claudio è contrassegnata dal chiamarsi fuori implicazioni pubbliche e universali degli eventi e pratiche che attraversa, da un rifiuto di classificazione identificante che lui stesso esprimeva definendosi: “tossico tra i filosofi e filosofo tra i tossici”. La teoria cui lavora invece è la ricerca di un’uscita dalla solitudine dell’uno singolare e irrelato.

Solitudine di colui che si è chiamato fuori dalle appartenenze universali, la sua personale biografica solitudine di outsider? Certamente, ma anche (ed è qui che il dato biografico personale diviene d’interesse generale) è la solitudine di ciascuno.

L’universale come totalità è uno irrelato, a sua volta singolarità. E viceversa, non c’è singolarità pura, non tessuta di universale, leggi di natura e rapporti di linguaggio.

Quelli che non rifiutano quelle appartenenze pubbliche universali e ne fanno habitat, nello starci dentro fanno nicchia, gabbia costruita con i ramoscelli disseccati dell’universale, e si riducono a essere l’uno singolare di un universo coerente con quella nicchia. Quelli che le rifiutano, sono un caso particolare, limite forse, della stessa operazione di costruzione di nicchia con gli stessi materiali. Non c’è differenza qualitativa, da questo punto di vista, tra i due atteggiamenti esistenziali. Questi processi d’irrigidimento di un universo-ambiente nel video vengono definiti mimetismo fasmide. I fasmidi sono gli insetti stecco, che non si limitano a imitare l’ambiente, ma producono, fisicamente costituiscono, l’ambiente che imitano. Ci si riferisce all’esperienza raccontata da Didi-Huberman, che vede un gran numero di fasmidi chiusi in una teca del Jardin des plantes di Parigi: a prima vista la teca gli appare vuota di animali, occupata solo dai rametti secchi che costituiscono l’ambiente, e poi questo ambiente si rivela essere gli insetti stessi. L’immagine mi sembra piuttosto eloquente.

Il singolare è legato all’universale nella coappartenenza a un’estensione più vasta che includa entrambi?

Questa estensione non può essere detta: “l’universo del discorso” o “la totalità”, perché questi termini, -nominando il tutto dell’universale- ricadono in quello che chiamavo nido e gabbia di un’universale che si totalizza in unità senza alterità, a sua volta singolare, che non lascia apparire alcuna alterità se non la singolarità (opposta e speculare?) che da quei nessi resta esclusa. Invece parlavamo di un’estensione più vasta, terza rispetto ai due. Termini come “infinito” e “assoluto”, sembrano pertinenti, indicando quel che non ricade sotto l’essere-uno dell’ente, e implicando l’atto di un credito ad altro dall’universalità data e dalla totalità chiusa dei suoi possibili.

Il termine “comunità a venire” ha il vantaggio, rispetto ai due precedenti, di collocare il luogo di coappartenenza tra singolare e universale nell’infinito incalcolabile degli esiti del nostro conversare, e nell’assoluto che solo a posteriori sarà stata la qualità della nostra convivenza, prima che se ne dissolva ogni traccia, con il pianeta, il sistema solare, e per quanto ne sappiamo la materia stessa.

Dato che questi esiti non appariranno come fenomeno ad alcun osservatore (l’ipotesi di uno sguardo divino resta un’ipotesi che moltiplica enti), e d’altra parte nemmeno costituiscono un ente reale come quelli fisici, la cui esistenza è autonoma da qualsiasi soggettività, possiamo dire che, dal punto di vista metafisico non sono niente. Ma questo niente, proprio in quanto tale, agisce come istanza, vettore orientante nel presente.

Quella che sarà stata la qualità del nostro rapporto retroagisce con quella del presente, se l’albero si giudica dai frutti e l‘inizio di una frase dalla sua conclusione. Questa retroazione però non è quella della frase che deve attendere realmente la fine (alla fine dei tempi per chi si può costituire il senso?) ma già insiste a riaprire la compattezza data in ogni presente.

L’assoluto della qualità del nostro con-essere è proprio nella sua caducità, valore della rarità nel tempo reso infinito dall’unicità, e improbabilità infinita (espressa dalla frazione:1 su infinito) del nostro incontro qui. Splendida gratuità di un messaggio che non attende la realizzazione di compiersi in una lettura ma si espone allo sguardo e ascolto del vuoto e del silenzio. Messaggio assoluto. È nuovamente di singolarità irrelata (l’etimo di ab-solutus si sovrappone a irrelato) che stiamo parlando, e ci ritroviamo lì. Ma non siamo rimasti al punto di partenza.

Ripercorriamo il movimento: partendo dalla singolarità del signor Ciascuno, impiegato, lavoratore, esteta, marito, abbiamo spinto il cristallo di universale irrigidito che la costituisce a naufragare nell’impensabile comunità della nostra specie nell’infinito della parola; parola che accomuna nel viaggio, ma anche fonda la propria possibilità stessa su una comunanza preventiva: il credito assoluto del riconoscimento che il termine “umano” implica. È precisamente il determinarsi della qualità di questo riconoscimento (che è già da sempre a venire) l’assoluto concreto, cioè quello che sarà stato il senso definitivo, totale, della nostra, di tutti e ciascuno, navigazione nello spazio-tempo-linguaggio.

Tutto questo, questa qualità del riconoscimento a venire, l’abbiamo restituito all’istante (vuoto come gli spazi siderali) del “noi” presente qui ed ora, che è e sarà il suo unico luogo di esistenza, fino a che il tutto non sia restituito al silenzio. Ed è ora che la qualità del nostro riconoscimento è trasformata da quello che sarà stata la qualità nel nostro desiderio.

Ecco che deposta questa carta nel gioco vi riconosco la figura della mia singolarità, in quanto superata, come un momento della verità, dunque dell’universale. Giubilo, riconoscendo in questo specchio la mia identità, il mio posto nell’Altro. Immediatamente, ecco che mi faccio quell’essente stato, come ci si fa una droga, e con ciò torno a farmi singolarità irrelata. Nuovamente io sono l’impurità attorno a cui il cristallo è precipitato e la perla ha prodotto la sua sfera e vi sono imprigionato e solo. E poi ancora, nella lingua della situazione, si rinomina l’impegno comune nell’a venire che sta en souffrance nel presente. Così via, vado zoppicando e mantenendo desta la fiammella.

Nei primi minuti del video Claudio si riferisce al “Il sacramento del linguaggio” di Agamben, ne riprende i temi del giuramento, maledizione, fede, di cui Agamben traccia un’archeologia. Si tratta di un’ipotesi di antropogenesi, in cui la fede, che nell’origine del giuramento fonda l’impegno del vivente nel linguaggio, costituisce l’evento decisivo. Dunque l’antropogenesi, il venire alla parola dell’uomo, non poggia sul fondamento cognitivo che lo sviluppo discorsivo orizzontale del logos porta poi in primo piano, ma su quello etico, di un atto di fede che mette in gioco il parlante nella parola, facendone “il vivente nella cui lingua ne va della sua vita”, che “può promettersi al logos”, fondandosi sulla dimensione verticale del nome. Malgrado il pregiudizio diffuso, il fondamento del linguaggio e dell’uomo detto “sapiens”, è prima etico-politico che cognitivo. A rinforzo dei risultati di questa archeologia Agamben riconosce nel Proslogion di Anselmo l’identità tra enunciazione e certezza nell’atto del pronunciare le parole “id quo maius…” come un nome di Dio, in un’esperienza di linguaggio prossima al giuramento. Agamben cita anche Wittgenstein (“Della certezza”) il quale constata che la sua certezza di chiamarsi W. non è né empirica né logica, ma è un “fidarsi”, un atto di fede, indispensabile premessa del minimo atto di pensiero.

Se l’accesso originario alla lingua è un certo giurare dell’uomo sulla propria natura di essere parlante, l’istituzione giuridica viene in un tempo successivo a sanzionare i comportamenti che vengono meno a questo impegno e tradiscono la fede nella parola. In una semplificazione eccessiva ma utile si può porre una proporzionalità inversa tra – la tenuta della fede originaria (da postulare miticamente come totale, in un linguaggio – nome, in cui la certezza coincide con l’enunciazione) – e lo sviluppo e articolazione di tecniche efficaci, tanto giuridiche che religiose e politiche, che, sorte per arginare l’incrinatura, ne approfondiscono il solco fino alla rottura definitiva.

La fede nella parola è l’opposto nella fede nell’efficacia. Poggia su un presupposto, non su un effetto. Ma quando gli effetti smentiscono i presupposti ecco apparire l’istituzione giuridica, e poi le altre tecniche efficaci a porre rimedio. Ma forse i presupposti erano falsamente presupposti? Forse non esiste alcuna fede data a priori, alcun riconoscimento del luogo dell’Altro, se non quello forzato dalle leggi positive o indotto da credenze in minacce superstiziose? Tuttavia né istituzioni né credenze avrebbero potuto sorgere senza questo credito preliminare.

Nietzche nella “genealogia della morale” s’interrogava sulla possibilità che vada perduta la difficile capacità di promettere. Promettere è un azzardo: significa impegnare l’io di un tempo a venire, legandolo al detto dell’io del tempo in cui si prometteva. Come puoi, oggi che pronunci la promessa, fidarti di quell’io diverso che domani dovrebbe mantenerla, quale nesso di fedeltà garantisce il tuo attuale flatus vocis? È anche possibile pensare che istituzioni e scritture siano divenute, o stiano per diventare, come un grande guscio vuoto, conchiglia o carapace, senza più l’animale dentro. L’impegno della parola data è animale, l’anima vivente sparita dalla corazza vuota. Questa ora funziona tramite conversione degli atti linguistici in scritture che attivano automatismi istituzionali in grado di garantirne l’osservanza. Come ci si lamentava fino a pochi anni fa, “una volta era sufficiente una stretta di mano”. Trita banalità naturalmente. Non è mai veramente esistita l’età dell’oro delle strette di mano tra galantuomini: già gli antichi cinesi, greci e romani conoscevano rimpianti del genere. Inoltre popoli a culture non sono sistemi chiusi e, di conseguenza, la loro entropia non è lineare. Ma questo non significa che non ci sia qualcosa di vero nell’idea di un progressivo venir meno della fede nella parola, sostituita dalla garanzia di efficacia della scrittura e delle istituzioni, tanto in cicli storici passati quanto in quello più vasto che sbocca nella condizione attuale. Naturalmente, in conformità alle dimensioni immense del processo in atto, la catastrofe antropologica sarebbe inedita: “Quando il nesso etico – e non semplicemente cognitivo – che unisce le parole, le cose, e le azioni umane si spezza, si assiste infatti a una proliferazione senza precedenti di parole vane da una parte e, dall’altra, di dispositivi che cercano ostinatamente di legiferare su ogni aspetto di quella vita su cui non sembrano avere più alcuna presa”, “governo della vuota parola sulla nuda vita”. La catastrofe troverebbe il suo sbocco ultimo ben oltre il diffondersi epidemico di una canaglieria cui risponde un altrettanto pervasivo dilagare di regole e protocolli: sfocerebbe il quella “psicosi normale” “generalizzata” il cui fantasma si aggirava nella letteratura psicoanalitica più recente. La psicosi è stata definita da Lacan come effetto della “forclusione di un significante fondamentale”, significante che nella nostra cultura accostabile come: “nome del padre”. Tramite questo si trasmette l’iniziazione, cioè l’”almeno una volta”, l’esperienza che rende possibile il dar credito alla finzione del linguaggio, al crederci, credere alla verità che la finzione costruisce, pur sapendola così costruita. Il “significante fondamentale” è l’avvenuta esperienza della mediazione sul bilico di quel crinale. (Atteniamoci al punto “significante fondamentale” trascurando la questione del nome e anche tutte le attuali derive socio-psico sul declino del padre e l’Altro inesistente). Avendo mancato l’appuntamento con quel significante, con quella determinata esperienza di linguaggio, la psicosi abita una sorta di nominalismo estremo in cui “le parole sono come cose” (Freud), oscillando senza mediazione tra l’inconsistenza di flatus vocis e la compattezza di macigni, in cui fanno massa con un significato pietrificato. L’eroismo morale e la genialità di alcuni psicotici può risultare così impressionante perché tremenda ed eroica è la lotta per tracciarsi una strada che supplisca la funzione di quell’esperienza fondamentale mai acquisita. Il nichilismo portato in scena dai “tossici” classici degli anni ’70 e ’80, propensione iperbolica a mentire e tradire ogni possibile legame e impegno, potrebbero esserne stati l’annuncio, ancora rappresentabile come discorso di un sintomo, sebbene al limite di una rappresentazione possibile per un interlocutore. Allora, secondo l’idea del “guaritore ferito” (l’antica idea sciamanica che solo chi ha attraversato il male può agire per guarirne altri), che la predica venga dal pulpito di Claudio ha un’indiscutibile forza di verosimiglianza.

Chiariamo: non c’è alcuna comunità perduta da rimpiangere nel passato, o viceversa, se vogliamo, tutte: a partire dall’estatico essere nel presente di tutte le forme di vita: la danza del vivente nell’aperto che Rimbaud ritrova anche nel librarsi dei moscerini in un raggio dorato di sole che irrompe in un orinatoio. Perciò qui tutti i riferimenti a una comunità mancante sono da intendere in relazione alla tematica del luogo dell’Altro, dell’apertura della dimensione del linguaggio conseguente a un credito preliminare a quel luogo. Non si tratta della semplice nostalgia reazionaria di comunità “organica” e coesa attorno a legami forti, ma del riconoscere quello che restava implicito nelle loro multicolori narrazioni e rappresentazioni passate. Riconoscere che, al limite opposto, dando per avvenuta ed irreversibile la loro dissoluzione, la tenuta di un collettivo continua ad implicare un presupposto, il riferimento al luogo di un credito preliminare dato ai vincoli del linguaggio: a partire dal vincolo più elementare, cioè il credito di un riconoscimento che lo distingue dal flatus vocis, da essere cosa tra le cose: il linguaggio umano implica un misterioso significare (anzitutto un soggetto impegnato con il suo “voler dire”), luogo di oscillazione del singolare e contingente nello spazio dell’universale.

Scrive Rimbaud “A una ragione”: una nuova ragione, fin dal colpo di tamburo con cui si annuncia il suo apparire, è “venuta da sempre” e se ne andrà “ovunque”. “Una ragione” irrompe in modo contingente e si afferma nell’universalità del “sempre” e “dovunque”. È in questa contingenza perentoria che implica l’in – pegno, l’implicazione del vivente nel divenire dell’universale, che si distingue la parola dall’uso di un codice per fini immediati di trasmissione di segnali. Si distingue in modo ben più radicale che nella doppia articolazione scoperta da Benveniste. È ragionevole ammettere che ogni processo di pensiero, e anche creativo nel senso più ampio, è (a posteriori) riconducibile all’universalità di un algoritmo computabile. Ma un istantaneo sollevamento del velo che copre il simbolo del pegno che dicevamo implicare il vivente nel linguaggio, accompagnato dalla scurrilità di un “Computami questo!”, sarebbe una obiezione pertinente e precisa alla questione dell’intelligenza artificiale. Dispiace solo il pensiero dell’imbarazzo del tenero Turing per la questa “confutazione” che porta sulla scena, non la semplice materialità di un hardware, ma il significante di quanto è impegnato dal corpo vivente e parlante per sostenere la possibilità della scena, restando velato dal pudore che inibisce l’osceno. Sta qui (non nel simbolo, ma nel fatto simbolizzato) la radice, speriamo inestirpabile, di quel “ben’altrismo” di cui Ferraris tempo fa accusava le correnti filosofiche che in forme e modi svariati erano arrivate a problematizzare questo punto e i suoi risvolti storici e antropologici. Naturalmente Ferraris dice una verità: che altro è la parola se non flatus vocis e traccia di scrittura? A quale ente corrisponderebbe questo luogo Altro la cui alterità apre al credito in una verità costruita come finzione? Corrisponde forse a un soggetto, a sua volta costruito come finzione? Heidegger aveva provato a parlarne per la via di una differenza tra ente ed essere-non-ente, ma il suo dito indicante è stato scrutato come cosa, con la lente d’ingrandimento, e trovato sporco del sangue dell’epoca e delle piccolezze e viltà dell’uomo, e la luna indicata è uscita di scena. Infatti questo presupposto di cui parliamo non è un dato di fatto, un’esistenza positiva, un ente, appunto. Se è sempre già dato lo è come istanza, esigenza, appello, debito, mancanza, ed anche colpa, peccato originale. Ma il porre come “colpa” la questione è già spostala dall’istanza originaria (impegno in un’apertura di credito e nelle sue conseguenze) sul fallo necessariamente implicato dall’atto con cui il corpo parlante s’impegna (i due sensi del termine “fallo” nella frase che precede sono entrambi pertinenti, ma svilupperemo solo quello di “passo falso”, lasciando l’altro sotto il suo velo). Il corpo parlante impegna nel gioco cui accede un quanto di godimento, il proprio, ma poi si trova a ricavarne, da questo, un plus godere in cui s’immobilizza paralizzato, come il fasmide di cui parla Claudio. Questo inevitabile zoppicamento è ben illustrato per esempio dalla figura dell’uomo d’ordine e di legge che si rivela fissato in godimenti osceni di tipo sadico, o del rivoluzionario tanto-peggio-tanto-meglio che ha molto più bisogno della malvagità del suo nemico che non del movimento concreto verso il mondo cui dice di tendere, figure entrambe riconducibili all’hegeliana “anima bella” che gode del disordine che denuncia e vi si fonda. Proviamo ad estendere la struttura, che questi esempi rendono visibile, a una sua forma più generale: quella con cui l’essere umano resta intrappolato dalle proprie stesse soluzioni, da tutte e ciascuna volta. Questa miseria è colpa, ed è tale per quanto sia inevitabile, e richiede un contro movimento. Se “la società dello spettacolo” vuol dire la società in cui il plus godere si è incarnato nel dispiegarsi di un universo di merci-immagini acquistabili e fruibili che saturano lo spazio di movimento e fissano ciascuno a un essere di godimento acquistato che lo definisce, l’immagine del fasmide è pertinente e il contro movimento è un’urgenza. La struttura per cui la soluzione diviene il problema è da intendere in senso molto più forte che non l’ovvietà del dire che ogni soluzione, ogni attrezzo utile per esempio, ha le sue controindicazioni, pone nuovi problemi nel risolverne altri. Naturalmente questo è vero, e vale anche per la tecnica, le merci, eccetera. Ma il senso più forte è quello per cui proprio lì, e solo lì, ne “la risposta” “la soluzione”, autentiche ed effettive nell’attuale, si annoda quel godimento inevitabile e colpevole, che fa la tragicommedia della inevitabile e colpevole stupidità umana. Solo lì perché di lì, e non altrove, passano i fili del senso, del vero e del falso, del bene e del male. Questo implica anche che non è sufficiente nemmeno l’ovvia soluzione della relativizzazione e dell’indebolimento. Non basta togliere l’enfasi del “la” da davanti alle parole “risposta” e ”soluzione”, perché attenersi a soluzioni e risposte di volta in volta e provvisorie – questo è certamente una soluzione e risposta ottima, – ma appunto, questa, in quanto “la” soluzione giusta del nostro tempo, a quali plusvalori di godimento lo fissa? Quelle di cui stiamo parlando. L’epoca della scienza (la soluzione di cui disponiamo) è anche l’epoca delle merci e del fasmide spettatore.

Dunque Savonarola aveva ragione? Lo zoppicare di cui parliamo è tale nel movimento storico dialettico delle nozioni di verità e bene, cioè nel loro concreto prodursi nel senso, nella piega di senso di un tempo, dunque Savonarola vedeva troppo lontano o troppo vicino per il suo tempo, mentre Claudio, la cui maschera comica a volte assomiglia a Savonarola, forse mette correttamente a fuoco lo stato attuale delle cose.

Naturalmente tutto questo è argomentabile ma non dimostrabile. Sono indimostrabili per definizione il credito presupposto all’Altro e il debito dell’inciampo nel proprio bottino di plus-godere estratto dall’evento e non restituito. Che significa plus-godere? È in questo scarto, analogo, forse isomorfo, a quello mostrato da Marx nella forma del plusvalore, che si giustifica il termine di “plusgodere”, introdotto da Lacan. Il lavoro è (l’origine del) valore, come attribuirgli un valore commisurante? C’è incommensurabilità, lo scarto è qualitativo. Il plusvalore non è una quantità calcolabile, estorta dal capitalista e ridistribuibile per via sindacale o politica. La scena in cui la verità e ciò che è bene si distinguono dal falso e dal male nel divenire di storia e storie è il modo in cui prende forma umana il godimento preventivamente gettato sul tavolo dall’esser vivente per accedere al gioco. In questo gioco la vittoria o la perdita sono comuni e consistono nella qualità di quello che ne viene come forma umana, umanità. Ma il godimento è anche ciò che il gioco produce. L’animale è nel limite di piacere dispiacere, non nell’illimitato del godimento. Come il lavoro produce valore la scena produce godimento. Come il plusvalore è l’appropriazione da parte del capitale o di qualcuno del valore “in più” prodotto dal lavoro (più di quello messo in gioco all’apertura), così il plusgodere è l’appropriazione, da parte del capitale (lo spettacolo: “guardateli godere”) o di qualcuno (chiunque, anche qui come immagine spettacolo, privata e pubblica) del godimento “in più” che la scena produce. Ma perché gli individui si giocherebbero in capitale e lavoro, scena storica eccetera, se non per quell’”in più” che vi si produce? Perché l’infans si metterebbe a parlare se non per il godimento che vi si produce? Certo, ma questo non implica ancora che sia per appropriarsene, per impadronirsene, nella sua forma resa commensurabile: sdoppiata in immagine. Detto questo il plusgodere è inevitabile e ricade sugli individui, non essendo data l’esistenza della comunità, o divinità, cui legittimamente appartiene, fin dal giuramento nel suo nome che inaugura il movimento e apre il gioco. Ciò nonostante, anzi proprio per quello, ricade come colpa e stupidità. Allora l’evangelico “non sappia la mano sinistra quello che fa la destra” non è un consiglio di bon ton, ma una proposta di contro movimento, che va in senso opposto al mondo della difesa dei diritti d’autore e della competizione per la proprietà delle risorse d’immagine.

La comunità è irrinunciabile, anche se, anzi proprio perché, non è mai stata altro che presupposta e a venire. Anche se sempre, finché sarà e se sarà, sarà un presupposto a venire, non ammette la rinuncia che si accontenta di godere di un suo resto, ricaduto dal suo non esistere. Anzi ne esige la restituzione. Per venire a esistere nel proprio sottrarsi esige questo sacrificio che non può in nessun modo essere esibito come credito dimostrabile. Anzi è la pretesa di esibirlo, renderlo computabile, che, aprendo la dimensione dell’osceno, lo trascina su quella scena in cui non può apparire altrimenti che nello sberleffo dadaista. Pulcinella fa un gestaccio: “chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto…” snocciola comiche tautologie.

Così abbiamo pronunciato la parola “sacrificio” i cui echi e risonanze, religione antropologia eccetera, fino ai modi più degradati di moralismo, masochismo morale ed esibizione perversa di sangue trippe e tutte le truppe di Bataille per brividi splatter, convergono nel renderla imbarazzante, se non inutilizzabile. Quanto a René Girard, la sua intenzione è dissolutiva (il solo senso del sacrificio è il non senso della violenza specifica cui ci condanna la forma mimetica del nostro desiderio), e in questo sta il suo grande contributo a un pensiero (Vattimo in primo luogo) che si misura con il senso della tradizione cristiana. Dopo la Shoà, comunque, non è facile né indolore maneggiare questo termine. Ma è quello che appare nelle nervature del discorso che il frottage di Claudio fa emergere. Mi limiterei a segnalare come il sacrificio nella sua forma logica essenziale sia il porre un oggetto (la vittima) per farne apparire la sparizione, il vuoto, il desiderio che raccoglierà e nutrirà la comunità a venire della sua presenza reale di assenza. Al di fuori della dimensione strettamente religiosa è stato il teatro greco, la tragedia, a mantenere attuale la memoria di questo evento immemorabile e sempre in atto. La ripresa freudiana del mito di Edipo ne ha fatto risuonare il senso anche nel nostro tempo. Ma, (dice Claudio nell’ultima parte del video) dissolta la scena del teatro antico, ora il luogo in cui mantenere la sua risonanza è divenuto “qui”, ogni qui che avvenga come luogo d’incontro, e dunque il suo tempo è “ora”, sempre “questa”. In ogni istante, l’immediatezza intenzionata di un plusgodere appropriabile va restituita a quell’istante, al tempo aperto dal differire dall’ente (il mio target nell’istante) del niente nel luogo dell’Altro, credito alla tua apertura all’impossibile essere-non-ente. Restituirlo all’Altro, dice qui Claudio, implica il dolore del sacrificio di Narciso, ma anche l’entusiasmo di una libertà ignota, la gioia di quel diventare divini cui tendiamo da quando abbiamo perduto la condizione beata di perfetta meditazione della vacca nel prato e della lucertola al sole. Nel nostro tentativo di diventare divini nella comunità dei parlanti, ci siamo saputi mortali, ma non possiamo fermarci a usare il linguaggio come strumento di sopravvivenza e parata di questo ego, come tanti animali falliti perché infelici. Non ci si può fermare a metà del salto. Non ci si può accontentate di meno, è stupidità colpevole rassegnarsi a non essere divini, per quanto animali, nella comunità di animali parlanti e divini che già siamo in ogni istante. Ma in quello stesso istante anche zoppichiamo in un altro tradimento di quell’aspirazione impossibile-irrinunciabile, ricadiamo in un altro appropriarci del tempo per richiuderlo su fini propri di affermazione egoica. Non possiamo liberarci di quel male (male-figo, lo chiama Claudio), ma possiamo riconoscerlo, (magari su un inginocchiatoio) e imparare a fare il contro movimento della sua restituzione all’Altro.

A questo punto vediamo sovrapporsi vari strati che dovremmo distinguere:

– il livello dell’opera. O.F.N. produce qualcosa: discorso teorico, documenti video, immagini e scritture… insomma produce elementi di un’opera.

– Il piano della vita quotidiana, la pratica di un ethos, habitus, modo di comportamento negli incontri e nei progetti.

– Il piano in cui si colloca il sintomo, che non è soltanto “quello che non va” nel quotidiano e nell’opera, ma anche quello che impedisce all’uno a all’altra di essere semplicemente folli: il sintomo è l’inciampo percepito come inciampo, cioè appunto quello che non va perché ci fa percepire che qualcosa non va, non lascia che le cose vadano lisce mettendosi di traverso. È un godimento, ma un godimento che impedisce di essere in balia del godimento. La struttura edipica, ad esempio, è un sintomo, e ha esattamente queste funzioni antropologiche, prima che psicologiche.

Il sintomo insomma è quello che non ci consente di cancellare la dimensione della restituzione, debito, colpa eccetera di cui si parlava prima. Il sintomo supplisce alla non presenza, non esistenza, dell’Altro. Zoppicare è un sintomo, ma non zoppicare, nel discorso fatto sopra, è peggio. Per una certa piega in cui si ritorce la cosa dobbiamo pur deciderci per questo peggio, alleggerire la nostra produzione sintomatica, non essere troppo rompiscatole, insomma: zoppichiamo tutti, ma cerchiamo di tenerci comunque al passo, di non farne chissà che questione. Ciò non ostante il sintomo non è semplice godimento, ma ha la forma di qualcosa di leggibile, di senso interpretabile e rivendicabile in termini di verità e moralità. Un esempio ovvio: il soldato che per un’ideologia criminale (che lui condivide) dovrebbe fare una certa strage di civili, e vorrebbe farla, ma al momento giusto proprio non ce la fa. Questo gli crea conflitto con quello che lui considera la propria coscienza del dovere di soldato, che gli dice che in quel contesto dovrebbe uccidere… ecco un sintomo ovviamente rivendicabile come momento di verità e moralità. E il soldato che fa strage di civili contro le proprie convinzioni morali e regole d’ingaggio “per un raptus”? Anche questo è sintomo, ma quale verità e moralità può rivendicare? I civili in questione non sarebbero d’accordo, ma per tutti gli altri è evidente che anche in lui c’è qualcosa di umano (troppo!) che viceversa la perfetta macchina da guerra, o economica, che fa tutto quello che è opportuno per vincere o guadagnare, e non conosce inciampo è l’inumano. Il mostro asintomatico è la terrificante follia di una normalità senza freni. Vero, bene o bello sono freni e zavorre che ci ancorano e trattengono dallo scivolare in quella follia. In questo senso sono sintomi anche loro, che ci legano a comportamenti “irrazionali” per il nostro tornaconto immediato. E naturalmente, sempre in questo senso, è sintomo per eccellenza l’antropogenesi, l’originario impegno del vivente nel linguaggio, il permanere di quell’origine, che non è un evento effettivamente accaduto ma non cessa di accadere, in tutto il tempo della parola umana.

Questi tre piani: opere, l’ethos della quotidianità, il sintomo, in O.F.N. tendono a coincidere: l’opera prodotta vuole essere la costruzione di un sintomo che a sua volta coincida con il quotidiano, istante per istante, situazione per situazione.

L’arte, in particolare romantica, è stata prevalentemente il far opera dei propri sintomi, sollevati e riscattati in questo, cioè in questo restituiti all’Altro e rivendicati in un valore di senso. Il viceversa di O.F.N. che fa dell’opera sintomo e del sintomo ethos, è forse rintracciabile nell’abbandono di Rimbaud, se letto come gesto poetico, parte dell’opera totale che ha nome Rimbaud. Lo si riconosce poi nel dadaismo, surrealismo, situazionismo, nel teatro che va da Artaud al Living, nel movimento beat, forse nel punk… insomma non è una novità, è originale nello scaturire secondo necessità dalla propria origine, ma si colloca in un vasto movimento d’interpretazione dei tempi e della cultura che chiede a questa di supplire a una certa degradazione del presente, a una prigionia dell’istante, una rassegnazione collettiva al piccolo godimento insensato, privato e solitario. In un altro senso, secondo Lacan Joyce fa la stessa cosa, ma se con l’opera fa sintomo, non porta poi il sintomo nell’ethos quotidiano. Lo colloca, come enigma da decifrare, nell’università, nel lavoro quotidiano della comunità degli universitari.

Tutto questo si presenta nel percorso O.F.N. anche come narrazione biografica: Claudio arriva nei suoi percorsi esistenziali e teorici a riconoscere in quel che chiama “narcisismo” ciò di cui deve liberarsi. Ritiene che questa esperienza sia valida per tutti, tocchi un problema epocale, e ce la restituisce parlandone in pubblico con un gruppo di persone. Ma nel farlo si mette in scena alimentando così il proprio godimento narcisistico.

Ecco un “inciampo” dove la soluzione è il problema.

Di quel mettersi in scena potrebbe farne opera, personaggio e carriera, fare opera del proprio sintomo privato, (il narcisismo) oppure smettere di farlo, smettere di mettersi in scena, impossibilitato da un sintomo che renderebbe impossibile, per eccesso di narcisismo, il piacere narcisistico del mettersi in scena. Entrambe sarebbero soluzioni, giuste e/o sbagliate. Invece fa della propria opera sintomo. È la soluzione giusta? Non è una soluzione, ma una dissoluzione, così pesantemente sintomatica, auto -dissoluzione… ma questo sintomo nel prendere il posto dell’opera viene in questo modo restituito. Il sintomo relativo all’opera, il fare o non fare opera del sintomo, si rovescia nel fare un sintomo dell’opera.

Cosa è questo sintomo che O.F.N. ha cercato di produrre, come opera, nella vita quotidiana? Il sant’uomo, symptôme – saint homme un tentativo di santità laica che deponga ogni interesse di continuità, immagine e sopravvivenza per non sottrarre qualcosa alla conversazione in atto in ogni istante…ecco: l’assolutismo morale (definizione che Tristan Tzara dà dell’esperienza dada e ben si adatta a quella di O.F.N.) conduce fino a questa folle pretesa di santità… ma a parte vita e miracoli, la prova che gli O.F.N. per quanto vi aspirassero, erano ancora ben lontani dalla santità, è la scarsità di riso che compare nelle loro produzioni video. A meno che questa scarsità non venga riscattata dal riso di chi li guarda. Non tanto, non solo, quello provocato da quell’aria da gatto spiaccicato in autostrada con cui i nostri eroi si presentano in scena, quanto invece per quella naturale allegria che ogni riscoperta dell’acqua calda suscita, dopo l’impossibile lavoro che vi conduce. O come il vispo topolino che infine salta fuori dal parto di un formidabil monte… se non altro, se questa comicità accadesse, lì qualcuno avrebbe colto quale acqua calda si riscopre in O.F.N. e di quale gaia scienza lampeggia, in tutti questi discorsi, nel tempo di un istante, prima di tornare alla critica del dito indicante il piccolo roditore ormai fuggito.

Dopo le prime righe ho rinunciato al tentativo di un commento puntuale della sequenza. Mi limito a riprendere termini ed espressioni del parlato integrandole nel mio commento senza indicazioni di provenienza che facilmente ritroverà chi guardi il video.

Però voglio commentare due passaggi precisi che sono due immagini costruite come quadri viventi.

La prima è la sequenza che mette in scena l’abbraccio asimmetrico in cui la donna (Naki) nell’uomo (Claudio) abbraccia l’Altro (il luogo in cui si fonda la fede nella parola), ma non lo coglie perché lui nella donna abbraccia “la cosa madre”, cerca di stringere l’oggetto in cui “ravanare”. L’immagine di questo abbraccio, la dissimmetria che rende l’incontro mancato e il rapporto inesistente, illustra tutta la dimensione di “inciampo” e “zoppicamento” di cui si parla nel video da qui in avanti, presentandola nella forma sincronica di un’immagine come non-rapporto tra i sessi, cui solo la contingenza di uno stratagemma di Amore, figlio di Poros e Penìa, può eventualmente supplire.

La seconda è la scena della “pietà” con Diego, che rimanda al reale, biografico, sapersi morente di Claudio. Al grembo materno della comunità umana si consegna, nella sua restituzione ultima, il sembiante del Logos incarnato. Così fa ciascun povero Cristo di parlante. Nell’affidarsi di Claudio a quella comunità di cui si sente figlio totalmente affidato e inerme ma anche, giustamente, padre creatore, non c’è, credo, consapevolezza di ricalcare così la struttura vertiginosa del mistero dell’incarnazione che Dante fa dire a S. Bernardo. Né intenzione blasfema né delirio cristico esplicito ma semplice citazione di un’icona fortemente espressiva di restituzione e abbandono totale: “è vostra la vita che ho perso” è un verso di Amelia Rosselli sovente citato da Claudio. Se c’è del delirio è il mio che in quell’immagine trovo evidente quanto sopra.

Per quanto riguarda il titolo e per restare in argomento: perché quell’avanzare per inciampi ed andirivieni, quel passo zoppicante che attraversa tutto il pezzo, e di cui ho cercato di rendere qualcosa,

perché questo passo procederebbe sulle “suole squarciate” di un Anticristo, come il titolo sembra suggerire? Se la faccenda O.F.N. ha mai fatto setta l’ha fatto per antifrasi, ponendosi come antisetta, distribuendo lettere di espulsione preventiva, – no anime stanche che cerchino manipolazioni e massaggi, rapporti prezzolati o perditempo, suggestioni, ipnosi e messaggi di La Risposta – naturalmente un’antisetta può pur sempre essere setta, e una lettera di espulsione preliminare una buona trovata di marketig delle iscrizioni. Solo il permanere in una inconsistenza autodissolutiva costituisce un contro movimento efficace.

Come ho già detto, all’esperienza di O.F.N. casca a pennello la definizione che Tristan Tzara dà, a molti anni di distanza, dell’esperienza del Dadaismo, nell’introduzione a un’antologia storica, dove definisce il Dadaismo: “un fatto di assolutismo morale”. Rovesciandone l’ordine in “moralismo assoluto” la definizione indicherebbe una condizione assoluta di assenza e simulazione di moralità (questo è il moralismo).

È in questo rovesciamento che ogni assolutismo morale è sempre sul punto di cadere, in bilico tra questo e l’autodissoluzione. Quest’ultima fu invece la coerente operazione di Dada. Ne resta il fatto che, nel suo tempo, tempo che si era appena annunciato come epoca della mobilitazione totale e delle tempeste di acciaio, il “folle” Dada, cercando un assoluto morale, sembra, a posteriori, l’unica voce di semplice buon senso nella follia generale… come minimo quegli artisti si sono tenuti all’altezza del compito di verità che spetta al fool nella tragedia storica. “Di cosa stiamo parlando?”: a volte un gesto insensato, folle, può far cogliere l’insensatezza dell’indaffarato chiacchierio di quell’essere sensato quotidiano che semplicemente mantiene la posizione acquisita dalla propria singolarità.

Ma questo è male? Per vivere bisogna pur sopravvivere… questo è il male, dichiara Claudio. L’essere sopravvissuti, non soltanto per Primo Levi, ma per tutti noi, è la colpa dell’arrabattarsi per quello… colpa inevitabile, ma ciò nonostante tale. Facilmente l’assolutismo morale si fa terrorismo. Risvegliare i dormienti ad ogni prezzo! Abbiamo già dato. Ma ecco ancora Tzara sul Dadaismo: la brevità e inafferrabilità della sua esistenza facevano parte della sua natura, necessariamente discontinua e lampeggiante. Il momento del risveglio non si fissa in opera o istituzione. Al massimo si ripete. Si trasmette per lampeggiamenti discontinui… il terrorismo invece fa sistema, o antisistema, che è lo stesso.

C’è poco da costruire sistema, in questo modo follemente dispendioso di tenersi all’autenticità morale del presente in atto, cercando in ogni situazione l’estremo del suo fallire. Perché “anticristo” dunque? Dada mi suggerisce la risposta: si tratta di un antipovero anticristo, e che, inoltre, se quel titolo è finito lì, allora è al suo giusto posto.

Per parte mia aggiungerei che si giustifica guardando alla forma espressiva generale del pezzo: la tecnica del frottage introdotta tra i surrealisti da Max Ernst consiste nel fare emergere le linee e la texture di una superfice ruvida sottostante sfregando o raschiando colore su un foglio o tela. Questo sfregamento può benissimo coincidere con un colorare e disegnare secondo un’intenzione d’immagine previa. In questo caso ne risulta un’immagine determinata sia da quella intenzionale che dagli effetti emersi dalla superfice sottostante. Quando riascolto molti discorsi di Claudio ho questo effetto di frottage. Per esempio qui apre con riferimenti al “sacramento del linguaggio” di Agamben, ma non ne dà certo un disegno riconoscibile. Evidenzia alcuni tratti e li assume nel proprio disegno, che per certi aspetti va contro pelo rispetto all’autore: Agamben sobriamente propone per l’attuale la ripresa del gesto dei greci, la filosofia come un logos libero da giuramento e maledizione ma radicalmente impegnato nella parola, impegno la cui diluizione e perdita, per l’interporsi delle tecniche sociali, degrada il linguaggio a vuota chiacchera. Claudio invece si entusiasma alla fantasia di barbarici ritorni al rito fondante, alla forza magica di giuramento e maledizione. Ma questi entusiasmi sono la materia strofinata, il colore, e quel che risulta nell’insieme è l’emergere in filigrana di quel solco di discorso nella cui tradizione e intenzione si iscrive Agamben, rinnovato dalla furia espressiva degli sfregamenti di Claudio operati con intensità materiali elementari: sangue merda e sperma, amore e rabbia. Nel nesso che si stabilisce tra gli elementi dell’uno e dell’altro strato del palinsesto emergono le linee di forza di un disegno ulteriore attorno all’attrattore di alcune idee fondamentali che determinano la forma del gesto, il disegno a priori del frottage. Quello che emerge dai testi in questo modo strofinati, così come la materia pulsionale che costituisce il colore, sono solo strumenti, materiali, occasioni, per ribadire gli intorni di quelle idee fondamentali che costituiscono gli attrattori strani del lucido caos dei discorsi di Claudio. Idee fondamentali, ma niente affatto elementari, perché concrete, e come tali, hegelianamente, indicabili solo attraverso la totalità … ma quale totalità? In senso immediatamente pratico possiamo dire: queste righe che stai leggendo si comprendono solo con una previa visione, se non di tutti i video di O.F.N. almeno del frammento “L’anticristo corre…”, perché ne riprendono e ripropongono terminologia e intenzioni. Ma più in generale: quale punto prospettico, chiave di volta, regge l’architettura di un discorso che si voglia concreto, che risponda della domanda generale del senso (inteso anzitutto come direzione, orientamento pratico) dell’esserci, noi, qui ed ora (che significa essere? Noi? Qui? Da dove viene e dove tende l’ora, in cui il “ci” avviene?). Come ne risponde Claudio? Il dissolversi delle costruzioni metafisiche del passato non implica affatto la possibilità di un atteggiamento dissolutivo rispetto al senso di queste domande. Anzi, le rende più brucianti perché prive di quelle grandi macchine di linguaggio in cui prendeva forma di finzione il lavoro della verità. Ora questo lavoro è spalmato su tutta la superficie del quotidiano, il suo tempo è sempre l’istante, ora. In questo senso, nell’ultima parte di questo video, Claudio fa cenno al “qui”, il dovunque, come attuale luogo e tempo del teatro greco della tragedia.

“Di cosa stiamo parlando?” Questa domanda ultimamente la si ripetere per strada e in televisione con tono polemico, perentorio e sbrigativo, sottintendendo per lo più il richiamo ad una miglior determinazione dell’oggetto del discorso. Ma la si può anche intendere, a rovescio, come richiamo a un discorso che non sia determinato da un ente, ma sia viceversa domanda orientata all’assoluto del senso d’essere del discorso stesso: appunto, “di cosa stiamo parlando?” La totalità qui in causa come oggetto ultimo del discorso e suo senso al tempo stesso, è per noi, per il nostro tempo, totalità aperta (dunque negata), una contraddittoria totalità non tutta. Ma è totalità che è non tutta anche nel suo essere di contraddizione, nella sua supposta ultima parola di non senso, reale e finitudine. Non è tutto lì, insomma, e anche il non tutto non lo è del tutto (non è totalmente non-tutto, perché è comunque uno). Così, nella diacronia, il non senso che buca il senso è solo un tempo del movimento zoppicante con cui il senso stesso si fa il vettore, la forza orientata che lo rinvia oltre la chiusura della propria immediatezza determinata. Il vettore del senso, a differenza del sapere, non si accresce in modo cumulativo. Va già bene se, di generazione in generazione, zoppicon zoppicconi, si trasmette nel suo andirivieni, come si propaga la forma di un’onda: fort – da, pienezza del senso – risveglio nella sua perdita, gioia del suo darsi ancora – inciampo nell’insensatezza veicolata da quella gioia, risveglio al desiderio aperto dalla sua perdita – e così via… ecco, Claudio considerava proprio compito teorico il mantenere accesa la fiammella di questo processo di combustione in cui la vita alimenta il logos con il proprio godimento in perdita. Isterica vestale con il martello (e non alludo a Nietzche) vegliava su quel movimento alimentandolo con il flusso ininterrotto del proprio interloquire in tutte le situazioni concrete della propria esistenza. In un certo senso il contenuto del suo discorso coincideva con, e si esauriva nella, sua pratica reale, nella situazione dell’enunciazione del suo appello: – destarsi, lì ed ora, alla sottrazione di senso come sola occasione possibile di senso.

Siamo l’insieme di tutti coloro che sono (che fondano il loro essere su) il riconoscimento (che anticipano gratuitamente e senza garanzia) ad altri… di appartenere all’insieme (cioè di essere il riconoscimento che anticipano gratuitamente e senza garanzia ad altri ecc.). Siamo l’atto di fede che sostiene il nostro interloquire. Siamo effetto di un “credo quia intelligam” che ci fonda in questo proslogion, interlocuzione assoluta con l’Altro che è il genere della specie unica, irrelata e sola che siamo, ciascuno e tutti insieme.

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