SCUOLA INDISCIPLINATA

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Pare che a breve dovrà prender corpo in quel di Catania, una scuola indisciplinata. Noi ricordiamo bene quando ne proponevamo senso e approccio. Oggi, distanti da quella tavola e da quel vino, trascriviamo l’inizio e la fine di una lettura capitataci in questi giorni. E’ il nostro piacere per quell’idea. Una pietra. Prima che confusione venga fatta.

 

INTRODUZIONE

A rischio di sembrare pedante voglio precisare alcune cose che mi sembrano indispensabili a seguito degli eventi maturati negli ultimi mesi, successivamente alla stesura dell’introduzione di questo volume.
Il lettore mi auguro, ricorderà che questo terzo lavoro si pone come continuazione ed integrazione dei due precedenti: La rivoluzione illogica e Teoria e pratica dell’insurrezione, ed ha come oggetto l’esame dei vari aspetti della “paura” della rivoluzione, sia da parte dei detentori del potere e dei loro servi ( più o meno sciocchi), sia da parte degli stessi rivoluzionari.
Si tratta di riflessioni e scontri, anche piuttosto duri, che sono andati maturando nel corso degli ultimi dieci anni ma che solo adesso trovano una migliore possibilità di essere capiti. Adesso che la desistenza e il tradimento dilagano, appaiono meglio i giochi del passato, le titubanze e i falsi estremismi, entrambi frutti di una mentalità frettolosa e superficiale.
Ben altre cose andrebbero quindi dette e approfondite. Ma non è possibile riscrivere dieci anni di interventi redatti tutti con un unico scopo, né rileggerli con la luce del senno di poi.
Una cosa però la voglio affermare. Non è più il tempo dei pudori e dei tabù, come non è più il tempo di nascondere sotto il manto caritatevole dell’ignoranza o dell’imbecillità quella che non si può chiamare altrimenti che rifiuto della lotta rivoluzionaria, innamoramento dello stato di quiete, baloccamento con innocue dichiarazioni di principio.
Ormai siamo arrivati alle aperte giustificazioni della desistenza e del compromesso, alla ricerca di strade per il patteggiamento col potere, al rifiuto della rivoluzione, all’esaltazione delle pratiche perveniste e pacifiste che poco hanno a che vedere con lo scontro di classe e col nemico che ci sta davanti e che continua a diventare sempre più forte. Ormai lo squallore si diffonde a macchia d’olio ed occorre dire con fermezza come stanno le cose. Occorre anche dire addio per sempre a tutti coloro che si indirizzano verso le pratiche della desistenza: dalle richieste di amnistia alle ciarle sulla delegittimazione, dai dissociati scopritori delle virtù teologali del pacifismo. Che ognuno faccia la sua strada. Per me ritengo che si possa e si debba ricominciare daccapo.

POSTFAZIONE

Rileggendo tutti e tre i volumi: La rivoluzione illogica, Teoria e pratica dell’insurrezione e questo Chi ha paura della rivoluzione?, mi sembra che si possa cogliere un filo comune, un tentativo abbastanza dettagliato di costruìre un’analisi rivoluzionaria che consenta un intervento nella realtà dello scontro attraverso l’impiego del metodo insurrezionale.
Mi rendo conto che le parole non bastano. Molte delle cose dette sono condivise da diversi compagni, in discussioni e confronti, ma poi, di fronte alla’azione concreta, emergono le contraddizioni e i malintesi.
Tutto ciò è spiacevole, ma umano, fin troppo umano. Occorre tenerne conto, anche se di volta in volta si traduce in una delusione e in molteplici amarezze.
Quale il motivo? forse la poca chiarezza? Forse l’andamento alterno e spesso deludente delle vicende di classe? Forse la paura della rivoluzione? Certamente tutto questo insieme.
C’è poi il silenzio. Io non ho nulla contro chi tace. Anzi, il silenzio può, a volte, essere più eloquente della parola. Ma bisognerebbe tacere per cosciente decisione di non parlare e non per evitare di dire stupidaggini. La paura, sotto qualsiasi forma, è sempre un fatto negativo.
Il silenzio condiziona la lettura. La fruizione diventa elemento del giudizio, l’obbiettivo è quello del minore danno possibile, del minore turbamento. Qualsiasi cosa purché tutto resti come prima, dando l’impressione del cambiamento.
Mi rendo conto che alcune delle mie tesi sono poco chiare. E non tanto per motivi di esposizione letteraria, della quale, per la verità, mi sono sempre curato poco; quanto per la riprova delle condizioni reali dello scontro di classe, riprova che consente la trasformazione delle teorie in elementi esplicativi di fatti (azioni essi stessi) evitando il loro permanere allo stato di semplici presupposti analitici.
Molti di noi leggono solo quello che le condizioni oggettive in cui si trovano impongono loro di leggere. Capiscono, di conseguenza, una parte di quello che leggono. Quando i fatti li sovrastano, si scoprono in grado di capire molte cose, ma non è loro bravura, è semplicemente che queste cose sono diventate chiare di colpo. Nella marea montante costoro diventano più alti, arrivano, con lo sguardo, un poco più lontano; quando le acque si ritraggono, ritornano a non vedere. Per giustificarsi si lamentano delle altrui oscurità. Molti di noi sono portati ad attribuire agli altri le proprie limitazioni.
Poi ci sono quelli che capiscono perfettamente, ma si studiano ad arte di assumere l’aspetto di coloro che non capiscono. Costoro non fuggono nel silenzio, anzi si fanno un nascondiglio dove andare a riporre il proprio animo di bestiole impaurite. Anche da questa parte non ci si può aspettare attenzione e riscontro.
E le sfumature potrebbero continuare al cesello e al particolare. Ma non avrebbero senso. La pietà impedisce di andare avanti. Cosa dire di coloro che rinviano l’impegno con se stessi (prima che col proprio nemico) lo rinviano all’infinito, smarrendosi nel fare di ogni giorno, nel quotidiano sopravvivere, nell’illusione che dopo l’ultima difficoltà si ricomincia davvero e seriamente daccapo? Nulla. Forse un giorno cambierànno, forse no. Rattrista vederli come scoiattoli a lavoro.
Per il momento non sono riuscito ad andare più in là.

Catania, 5 aprile 1986

Tratto da
“Chi ha paura della rivoluzione?”
di Alfredo M. Bonanno
Edizioni Anarchismo

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